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In notturna

Sono appena arrivato al parcheggio, dove ho appuntamento con Cristiano e Gabriele. Stasera corriamo in notturna.

Un ultimo check allo zaino: batteria di ricambio per la frontale, bacchette, un antivento un po’ più spesso—non si sa mai.

Il sole è appena tramontato, lasciando nell’aria un tepore destinato a dissolversi in fretta. Una brezza leggera, prende il suo posto.

Il giro tracciato non è particolarmente impegnativo, ma di notte è tutta un’altra storia. Illuminati solo dalle frontali, ogni ombra si allunga, il silenzio diventa più denso, i sentieri familiari si trasformano in territori inesplorati.

Dopo una lunga salita fino alla Verruca, ci fermiamo un attimo. Davanti a noi, la pianura punteggiata di luci si estende fino al mare. La vista, quasi a 360 gradi, ci avvolge.

Quelle luci sembrano lontane, come se appartenessero a un altro mondo, mentre noi restiamo immersi in questa dimensione sospesa, remota.

Correre di notte affina i sensi. La vista si restringe al cono di luce della frontale, la concentrazione aumenta. Qui è il passo a guidare lo sguardo: radici, sassi, asperità del terreno diventano più definite, quasi scolpite. A tratti, questa chiarezza ci dà sicurezza, e i piedi si muovono più rapidi.

Nel buio e sotto la pioggia, il contatto con la natura si fa più intenso.

L’uomo torna istintivo, riscopre un legame dimenticato con l’ambiente. Abituati alla luce, alla necessità di controllare tutto, abbiamo perso la capacità di fidarci dei sensi più profondi.

Nel buio, non si tratta solo di vedere, ma di percepire. Non solo di sentire, ma di ascoltare.

Muoversi senza il conforto della vista significa affidarsi a qualcosa di più antico, primordiale.

Non è facile. Ma è proprio questo il bello.

Arriviamo al primo bivio. Ricarichiamo le flask con l’acqua. Siamo a metà del giro.

All’improvviso, un verso squarcia il silenzio: un uccello notturno. Per un attimo, la mente gioca con la fantasia, trasformando quel suono in un richiamo esotico, come se fossimo in una foresta lontana.

Proseguiamo. Il vento si è alzato, siamo più esposti. Salendo ancora, raggiungiamo il punto più alto del Monte Pisano. Da lì possiamo vedere l’ultima parte del percorso e, oltre, il mare illuminato dalla luna e dai riflessi delle città costiere.

Ci scattiamo una foto per fissare il momento, poi ripartiamo.

La discesa è veloce, fluida, ma a un tratto il fascio delle frontali illumina qualcosa tra i cespugli. Un’ombra si muove.

Un cinghiale.

Enorme, immobile. Probabilmente dormiva, finché la nostra luce non lo ha colto di sorpresa. Scatta in piedi e, con un frastuono di rami spezzati, si lancia tra i rovi.

Il cuore accelera. Un piccolo spavento, una scarica di adrenalina che ci spinge a correre ancora più veloci verso l’arrivo.

Quando raggiungiamo le macchine, il paese si muove con ritmi opposti ai nostri. Alcuni rientrano a casa, altri escono per andare a lavoro, qualcuno si prepara per andare a dormire.

Ci fermiamo in un bar per una birra. Sembriamo alieni: vestiti fluo, zaini in spalla, volti e gambe segnati dal fango e dai rovi.

Eppure, nei loro sguardi leggiamo meraviglia.

La stessa che proviamo noi, ogni volta che viviamo un’esperienza come questa.

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